La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4214/2023, si è pronunciata in merito alla modalità di classificazione come rifiuto nel caso di specie di discarica abusiva.
La classificazione di una sostanza o di un oggetto quale rifiuto non deve necessariamente basarsi su un accertamento peritale, potendo legittimamente fondarsi anche su elementi probatori, quali le dichiarazioni testimoniali, i rilievi fotografici o gli esiti di ispezioni e sequestri e l’accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto ai sensi dell’art. 183 d.lgs. n. 152 del 2006 costituisce una questione di fatto, demandata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici.
Nel caso di specie, l’imputato è stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006, in quanto il tribunale ha correttamente affermata la configurabilità di una discarica abusiva, per la presenza di plurimi elementi sintomatici, come l’accumulo (più o meno sistematico), ma comunque non occasionale, di rifiuti in un’area determinata e per un’ampia estensione della stessa; l’eterogeneità dell’ammasso dei beni accantonati; la condizione di degrado, quanto meno tendenziale, dello stato dei luoghi per effetto della presenza dei materiali (promiscui, pericolosi e non pericolosi, con tracce di ruggine e con erbacce, non rimossi e accumulati indistintamente, con evidente dismissione senza possibilità di riutilizzo).
Difatti, secondo la Giurisprudenza “ai fini della configurabilità del reato di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata, è sufficiente l’accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito, con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato, essendo del tutto irrilevante la circostanza che manchino attività di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata”.